| Fermo sul ciglio del dirupo, con una luce irata negli occhi cremisi e i lunghi artigli chiusi a pugno, Lord Pendleton muove con rabbia lo sguardo sullo scorrere ribollente del fiume sottostante, maledicendo sè stesso per essersi fatto beffare in quel modo cosi scontato da due mocciosi con ancora il puzzo del latte addosso. Anche se, ci ripensa, il nano sapeva di qualcos’altro, di cui preferiva non ricordare nulla, ma quello era un altro discorso. I suoi sottoposti si accalcano come formiche sul ciglio del burrone, e il Lord li osserva accigliato, mentre agitano smarriti da una parte all’altra le teste munite di antenne. “Quale è il problema, Alfonso?” chiede, anche se già conosce la risposta. Alla sua chiamata, uno Shadowgear con una coppola in testa si stacca dagli altri e barcolla fino a lui: “Miii, l’acqua cancellato ha ogni odore, boss” afferma l’essere con uno spiccato accento siciliano, lisciandosi un paio di folti baffoni. “Nun pozziamo seguirli per adezzo, i ragazzi non sanno da che parte andare” Pendleton sbuffa: “Lo supponevo, mio mafioso amico...a questo punto ritengo che il provvedimento più adeguato a questa situazione sia inviare il nostro esploratore migliore lungo la corrente del fiume per localizzare l‘oggetto delle nostre preoccupazioni. Provvedi immediatamente, Alfonso.” “Miii, questa si che è una buona idea, boss! C’avevo pensato pure io, però Jonnhy dice che c’ha paura dell’acqua e non c’è verso di smuoverlo” E nel dire cosi, il siciliano indica uno Shadowgear abbracciato come un koala al tronco di una palma, con altri tre suoi simili che cercano inutilmente di staccarlo armati di piedi di porco e cacciacopertoni. Pendleton osserva per un attimo la scena pietosa, poi prende coraggio e ci riprova: “Capisco...e il nostro secondo migliore esploratore?” chiede, speranzoso, ma sempre mantenendo un perfetto self-control. Alfonso non risponde; si limita ad indicare l’altro Shadowgear, stavolta abbarbicato alla radice sporgente della palma, con una fila di altri esseri oscuri che cercano di staccarlo tirandolo per i piedi. Con la testa abbassata in segno di sconfitta, Pendleton ha un sospiro di avvilimento: “Beh, immagino che sarebbe davvero poco cortese costringere questi signori ad avere a che fare con un elemento da loro cosi odiato, nevvero?” “Nun sarebbe carino per niente, boss” dà l’assenso Alfonso con fare da saggio. “Benchè si trattasse di una domanda retorica, mio meridionale amico, devo prendere atto della cosa. Per cortesia, dai ordine che vengano inviati...” Le parole muoiono in gola al Lord, nel vedere una figura apparire sulla sommità del crinale. Immediatamente, come richiamati da una voce invisibile, tutti gli Shadowgear sospendono la loro attività frenetica e volgono gli sguardi verso quel unico essere, che, lentamente, sta camminando verso di loro. Cala un silenzio di pesante tensione. La figura avanza tranquilla, ogni passo scandito dalla rilassatezza di chi sta compiendo una semplice passeggiata in un parco. Gli Shadowgear fuggono rapidi al suo passaggio e, assiepandosi ai bordi del sentiero per non intralciargli il passo, lo osservano con timorosa soggezione; come cani di fronte all’arrivo del padrone, stanno attenti anche a non sfiorare i bordi del suo impermeabile grigio. Mentre anche Alfonso si dà a una prudente ritirata, solo Pendleton resta ad attenderlo, il mento sollevato e un espressione indecifrabile sul viso quasi privo di lineamenti. “Allora, Lord?” chiede la figura, e la sua è una voce di giovane uomo, colma di arroganza ed irrisione. “Come dunque procede codesta caccia ai topi? E’ fonte di tedio per la vostra buona persona a causa della sua elevata semplicità oppure la vostra rete è colma di buchi da cui i pesci sfuggono rapidi?” L’uomo accompagna il suo pomposo discorso con svolazzanti gesti del braccio, come un attore che declama un monologo in platea, per poi terminare portandosi il pugno chiuso all’altezza del petto e inchinandosi lievemente in avanti con un largo sorriso, in una derisoria parodia di inchino rivolta allo Shadowgear. “Padrone...” sospira Pendleton, abbassando il capo. “Questo vostro atteggiamento irrisorio nei miei confronti è per me fonte di grande depressione” Al sentire quelle parole, il sorriso sul volto dell’uomo svapora lentamente, sostituito da un‘espressione di apparente sorpresa: osserva la creatura d’ombra in silenzio, dando l’impressione che stia cercando un modo per dire qualcosa, ma poi, uno scatto improvviso d’ilarità lo coglie e scoppia in una risata sguaiata. Tutt’attorno gli Shadowgear si agitano, inquieti, ma basta un sibilo accennato da parte di Pendleton per riportare immediatamente l’ordine. L‘uomo non sembra curarsi di ciò e continua: “Andiamo, Lord! Non ti facevo cosi permaloso!” grida, la voce spezzata dalle risate. Picchia con la mano aperta sul cilindro di Pendleton, divertendosi a farglielo sprofondare sempre più sul viso ad ogni colpo. “Toc toc?” gli chiede. “C’è qualcuno in casa? O è tutto vuoto come sembra?” Pendleton assentisce, imperturbabile: “Si, mio signore...” L‘uomo si piega in avanti e lo osserva dritto negli occhi, gli occhi sprizzanti ilarità. “Ah? Si, signore? Si, signore cosa? Che c’è qualcosa dentro la tua piccola testolina o che è tutta vuota?” chiede come stesse parlando con un bambino stupido. Un brivido sembra percorrere la massa di Shadowgear che affolla tutta la zona circostante: le creature appaiono combattute, alcuni aprono e chiudono gli artigli ritmicamente, altri snudano le zanne, eppure nessuno osa muoversi. “C’è qualcosa, padrone...” risponde Pendleton, con freddezza. “Ah, si?” chiede l’uomo, con il tono carico di derisione. “E se c’è qualcosa, forse riesci anche a ricordarti quali erano gli ordini, vero? Dai, se ti sforzi ce la fai, lo so” Benchè il cappello sia calato fino a coprirgli gli occhi, la risposta di Pendleton è ferma e decisa: “Controllare il perimetro circolare circostante il luogo dell’operazione in un raggio di 1.5 chilometri, impedire a qualsiasi essere vivente di penetrare nel perimetro, cacciare ed eliminare ad ogni costo tutti gli intrusi, evitare assolutamente ogni tipo di fuga di notizie fino al completamento dell‘operazione. Questi ordini hanno precedenza assoluta e devono essere portati a termine.” Con una mano sull’orecchio, l’uomo ascolta tutto assentendo esageratamente e ostentando falsa soddisfazione. “E...?” chiede alla fine, quasi deluso. “Non manca qualcosa...?” Per la prima volta, il Lord Shadowgear ha un’esitazione: apre la bocca e la richiude subito dopo, in difficoltà. “E...?” lo incalza l’uomo, gongolando del turbamento dell‘essere oscuro. “E....” Pendleton deglutisce. “Trovare e ricondurre alla base...Lei...” scandisce con fatica, le parole che gli cadono di bocca come barre di piombo. Lo stesso disagio si ripercuote su tutti gli Shadowgear presenti, che, al solo sentire quella frase apparentemente cosi innocua, arretrano, quasi temessero di vedere qualcosa di spaventoso calare su di loro da un momento all’altro. “Molto bene! Molto bene!” Lontano dal turbamento generale, l’uomo applaude vigorosamente, un ghigno dipinto sul volto. “E’ strano, ma alla fine anche uno scarto come te riesce a ricordare le cose più semplici” Con noncuranza, si appoggia le mani sui fianchi e squadra il suo sottoposto con divertita sufficienza. “E quindi...? Adesso cosa bisogna fare...?” Ancora scosso, Pendleton si limita a chinare il capo in un titubante segno di obbedienza: “Li troveremo, padrone” “Eh, me lo auguro, me lo auguro, caro il mio mostriciattolo...” L’uomo scuote la testa e sospira, un largo sorriso stampato in volto. “Me lo auguro...per te...” Nel pronunciare le ultime due parole, il suo sguardo dorato sembra brillare per un istante di una sfumatura indecifrabile; passa veloce e scompare con la stessa rapidità con cui è apparsa, ma non abbastanza per sfuggire a Pendleton, che vi scorge una tacita minaccia. “Sarà fatto, padrone” ripete, riprendendo il controllo delle proprie emozioni e della propria voce. Quasi non l’avesse sentito, l’uomo gli volta le spalle e, in completa disinvoltura, comincia a tornare da dove è venuto. “Lo spero per te...Lord!” dice allegramente, agitando una mano dietro di sè a mò di saluto, con il lungo impermeabile che gli ondeggia leggero sulla schiena. Pendleton lo osserva andare via in un silenzio pieno di dubbi. Per un lungo attimo, lo Shadowgear si ritrova combattuto tra un impulso istintivo e la decisione dettata dalla ragione. Turbato, soppesa i dubbi che lo attanagliano, per poi prendere una decisione. “Padrone!” chiama a gran voce, attirandosi gli sguardi generali. L’uomo si ferma. Benchè non accenni nemmeno a voltarsi, la sua voce giunge decisa in risposta: “Cosa vuoi?” Pendleton digrigna la mascella, per poi declamare con voce ferma e possente: “Gli ordini saranno eseguiti, Lei vi sarà riportata in tempo per l’operazione e gli intrusi saranno annientati! lo giuro sul mo onore di Lord!” “Il tuo onore di Lord?” Sorpreso da quella domanda, lo Shadowgear non ha il tempo di ribadire i suoi propositi che una risata sguaiata lo costringe a ingoiare di nuovo ciò che aveva intenzione di dire. “Il tuo onore di Lord?” Sotto gli occhi sbigottiti di tutte le creature oscure, l’uomo ride senza controllo. “Il tuo onore? Il tuo onore? Vuoi davvero farmi morire dal ridere, mostriciattolo?” spizzica tra le lacrime. “Hai un onore? Un mostro come te? Davvero? E quanto vale? Quanto una scarpa rotta? Un verme morto? Di meno? Smettila di fare queste battute o va a finire che ci rimango sul serio!” La profonda offesa che permea quelle parole è tale che persino le creature oscure se ne sentono ffese per il proprio Lord. Eppure, nonostante gli sguardi preoccupati scoccatigli dai suoi subordinati, Pendleton non si muove di un centimetro di fronte a quella offesa, limitandosi ad osservare a petto in fuori e attorniato dal silenzio. “Ahahaha, siete veramente troppo forti, veramente troppo forti!” L’uomo ride e ride, e senza aggiungere l’altro, se ne va, abbandonando tutto il crinale a un silenzio teso. Con cauta circospezione, Alfonso si avvicina al Lord, rimasto fermo lì dov’era, simile ad una statua di pietra. “B-boss?” chiede, titubante. “Trovateli, Alfonso” Il comando di Pendleton è un sussurro appena percettibile, eppure ognuno degli esseri presenti lo sente chiaro come se gli venisse sussurrato direttamente nell’orecchio, e non c’è Shadowgear che non tremi nel sentire l’immensa furia che lo permea, appena celata in un tono calmo e controllato e per questo ancor più spaventosa. “B-boss?” si azzarda a chiedere di nuovo Alfonso. Gli occhi rossi del Lord bruciano intensamente, mentre fissano il punto in cui il padrone è scomparso oltre il crinale: “Trovateli, Alfonso, trovateli e portateli da me. Lei non deve essere toccata. Uccidete i nostri amici intrusi e portatemi i loro cuori, sono stato abbastanza chiaro?” “Chiarissimo, boss!” Uno squillo di trombe non avrebbe dato ad Alfonso la stessa motivazione del vedere la furia gelida del Lord. “De corsa, ragazzi! Sparpagliateve e trovateli, capito che ha detto il Lord? Setacciate tutto! Rivoltate ogni pietra! Usate il Ciccio del Boss, se serve! Ma trovateli, capito? Trovateli!!!” urla, correndo su e giù di fronte alla schiera di Shadowgear, che va confusamente riorganizzandosi. Spinta dall’urgenza di quegli ordini perentori, la grande massa di esseri oscuri si mette in moto con incredibile rapidità: in una cacofonia di zanne e artigli, sibili e richiami, le creature si dividono in una miriade di gruppi più piccoli, che, uno dopo l’altro, svaniscono, sparpagliandosi in ogni direzione come tante cavallette affamate. Alla fine, resta solo Lord Pendleton: una piccola figura oscura con un inquietante luce ad illuminargli lo sguardo cremisi. “Non fuggirete da noi...“ sussurra, avanzando lentamente sull’erba. “Nessuno può fuggire dall’Oscurità...“ Sotto i suoi passi, un‘ombra comincia ad allargarsi sul terreno; diventa sempre più grande, sempre più grande. “Nano e ragazzo...affonderete anche voi nella morsa infinita dell’Oscurità...assieme a tutto questo mondo...” L’ombra si increspa verso l’alto, percorsa da un sussulto, prima di iniziare a sollevarsi, come se qualcosa sotto di essa cercasse di uscire. E più tentava, più ci riusciva. Prima un braccio, poi un altro, due arti neri come la notte fuoriuscirono dalla massa liquida, si ancorarono al terreno e cominciarono a tirare per fare emergere il resto. Un espressione compita apparve sul volto di Pendleton: “Ma d’altronde, è inutile stare qui a fare scene” afferma, con perfetto self-control da lord inglese. “In fondo, questo non è nient’altro che il nostro lavoro”.
A parecchia distanza dal luogo in cui sta accadendo tutto ciò, dopo aver turbinato impetuosamente nelle rapide ed essersi fatto strada rombando in curve strette e tortuose attraverso le rocce dell’isola, il fiume perde la sua violenza e rallenta la sua velocità, fino a formare un grande stagno tranquillo. Numerosi animali vi vivono in pace, dai Sahagin pensionati ai Budini allo stato liquido, ed oltre al tranquillo mormorare della corrente, solo i versi di uccelli e di animali ne punteggiano la profonda tranquillità. La luce del sole riluce allegra sulla superficie dell’acqua, divertendosi a farla splendere di riflessi dorati, che si spandono nell’aria tersa come le risate di un bambino felice. E’ un posto stupendo per prendersi una vacanza. Solo che Doye e Tidus non sono lì. Continuando a procedere versoi il mare, il fiume si stacca dal grande stagno e prosegue il suo corso in un letto ancora più stretto. Brontolando cupamente, si abbatte contro alte pareti rocciose e selve di rocce appuntite; parecchie esibiscono la sagoma stampata di un nano a braccia aperte. In questo tratto, la corrente è violenta, per colpa della forte pendenza del suolo e, nonostante i parecchi impedimenti segnati da tracce di colpi di zucca, si fa strada con forza. Proseguendo ancora, si arriva ad una cascata che precipita in un burrone alto 15 metri e svanisce in una nuvola di vapore denso. Poco prima del precipizio, accanto al corso del fiume, c’è una piccola radura piena di simpatiche farfalline, fiori colorati e spifferi piacevoli di vento. Ma Doye e Tidus non sono lì. Parecchi rami sporgenti sull’acqua, che qualcuno caduto nel fiume avrebbe potuto usare come appiglio, purtroppo sono stati colpiti proprio in quella stagione da una rarissima malattia che li ha indeboliti e, per chissà quale motivo, sono infatti tutti spezzati, tranne l’ultimo, un tronco nodoso piegato dal vento, che reca incisa sulla corteccia una perfetta sagoma nanesca e i segni di unghie e denti lasciati da qualcuno che cerca disperatamente di aggrapparsi. Ancora più giù, dopo la cascata e gli scogli, prima di arrivare in vista del mare, il fiume precipita in un tunnel. Questo percorso sotterraneo ha la particolarità di essere abitato da piccoli pesciolini dall’aria carina che si divertono a cercare di sbranare in gruppi non inferiori al milione tutto ciò che passa; oggi, si possono anche osservare, parecchi pezzi di mutandoni di taglia larga nell’acqua cristallina. Dopo un lungo tratto costellato di curve a gomito, cascate sotterrane, zone di pesca con uso di reti d’acciaio ricoperte di aculei e pescioni idrofobi, finalmente il fiume torna all’aperto; fino a quella mattina, si divideva in due rami per aggirare una grossa pietra che stava al centro della corrente, ma qualcosa l’ha fracassata in mille pezzi e adesso il fiume scorre libero e tranquillo fino a sfociare sulla dolce spiaggia di Besaid. Lì c’è Doye. O meglio, ciò che ne resta. “Maria! Che dolore!” Mentre si trascina pietosamente fuori dall’acqua, il nostro amico nano non sembra essere nei suoi momenti migliori: è bagnato fradicio, pieno di ammaccature, ha tutti e due gli occhi neri, la capoccia piena di bernoccoli, i vestiti strappati, una conchiglia in un orecchio, zoppica e un pesce-gatto gli morde tenacemente il fondoschiena. Proprio in quel momento, arriva Tidus di corsa. “Ehi, Doye? Come stai? Sei ancora intero?” chiede trafelato il biondino. In tutta risposta, gli arriva il pesce-gatto in faccia. “TI PARE CHE STO BENE?? COS’E’, SEI CIECO, BIONDINO?” sbraita il nano spruzzando getti di vapore dalle orecchie., e direbbe altro e molto di peggio, se le forze non gli venissero meno e non cadesse a faccia in giù come un birillo abbattuto da una palla da bowling. “Oh, ma non si può chiedere nulla” sbuffa Tidus, tirandosi via il pesce dalla faccia, che , però, apre la bocca e gli morde la testa. “AHIA!” “Uff, uff, oh mamma, mammina mia bella” ansima Doye, distrutto, strisciando sui gomiti verso la sabbia. Appena mette una mano sul terreno, gli sembra di tornare alla vita. Ci si butta sopra a peso morto e resta lì a riprendere fiato, mentre, dietro di lui, Tidus corre in preda al panico di quà e di là cercando disperatamente di staccarsi il pesce di dosso. “Ehi, biondo” dice il nano con voce lamentosa, senza muoversi di un millimetro. “Passi di avermi mancato mentre veleggiavo al centro dello stagno, ma se mi passavi un ramo decente prima della cascata non è che mi sarei offeso, eh?” “Ma mica è colpa mia se erano tutti marci!” “Se, se...mettiti dietro a ste scuse sceme” “Ma quali...scuse...sceme! E’ vero!” risponde con difficoltà Tidus, colpendo ripetutamente il pesce-gatto con una roccia. Doye solleva la testa quel tanto che basta per guardarlo affannarsi: “Non vengo là a strangolarti solo perchè mi mancano le forze” “Meno...male...“ Con un sonoro plop, il pesce viene via dalla faccia di Tidus. Il ragazzo lo butta via freneticamente e sospira di sollievo, sollevato: “Ah, a proposito!” dice, ricordandosi di qualcosa all’improvviso. “Che c’è?” chiede Doye, stancamente. Tidus a un sorriso titubante: “Ehm, è una cosa che forse non ti piacerà” “Tranquillo, non ce la faccio neanche a scoreggiare, figurati se riesco a menarti”. “Ok!” Il ragazzo sembra sollevato, anche se non del tutto sicuro. “Ehm, visto quando stavi per precipitare nel fiume sotterraneo e io ho provato a tirati fuori tirandoti una fune?” “Si? Ma vieni più vicino. Con quella vocetta da pettirosso, non riesco a sentire un cacchio” “Ehm, ecco...” Tidus appare un po’ restio a proseguire. “E parla, uomo, ti ho detto che non ti faccio niente, ma parla!!!!” “Dopo che eri passato, ho trovato una leva che deviava l’acqua in un affluente tranquillo!” “IO TI AMMAZZO, DEFICIENTE!!!!” “Ti pareva...” Dopo un breve scambio di opinioni, i nostri, molto poco, eroi lasciano la spiaggia e si incamminano nella foresta di Besaid: Doye davanti, borbottando parole che è meglio non riportare, e Tidus dietro, massaggiandosi la parte posteriore della testa, in cui appare il segno lasciato inequivocabilmente da una martellata. Le palme sono rade in quella zona vicino al mare, e il terreno è coperto solo da un prato di erba sottile, su cui i due camminano a passi spediti. “Ouch, non serviva mica arrabbiarsi cosi” commenta il biondo imbronciato. “Ragazzo, se non te ne fossi accorto, mi sono fatto un giro che al confronto farsi le montagne russe di Mirabilandia con lo skate è un’ottima idea, rendo l’idea?” “Cos’è Mirabilandia?” “LASCIA STARE!!!” Cala un attimo di silenzio, rotto solo dal rumore di passi e foglie spostate. “Uff, ma io volevo saperlo” commenta Tidus così piano che pure i colibrì si fermano in volo per un attimo a chiedersi se era solo un spiffero o se qualcuno li stava chiamando. “Hai detto qualcosa?” scandisce molto lentamente Doye, con gli occhi color fuoco, le zanne, le corna e il fuoco intorno. “Niente, niente...” borbotta Tidus, girandosi dall‘altra parte. “Ne ero sicuro...” commenta Doye, tornando immediatamente normale, poi riprende: “Ad ogni modo, chi cavolo erano quelli?” chiede, scocciato. Tidus si gira di botto verso il nano: “Cosa? Ma io pensavo che li conoscessi tu!” esclama, incredulo, ricevendo uno sguardo incolore in risposta. “Cioè, non ho mai visto mostri del genere, io che abito su quest’isola da tre anni. Appari tu dal nulla e guarda caso subito dopo di te arrivano questi cosi che provano a farci secchi senza apparente ragione, e tu vorresti farmi credere che non sai nemmeno chi sono?” Doye lo guarda per un attimo come se fosse una statua di sale, poi fa spallucce: “Boh...mai visti...” “MA COME SAREBBE A DIRE??” “Colpa tua...non conosci abbastanza bene st’isola” “Ci rinuncio...” Tidus abbassa la testa, sconfitto. “Ecco, bravo, rinuncia, pure a campare, se ci riesci” commenta Doye, ma tra sè, pensa a ben altro. I due neuroni rimasti nel suo cervello smettono di preparare le valigie e con sospiri afflitti tornano a lavorare: suonano la solita sirena attaccata sotto l’orecchio e ricevono in risposta un’imprecazione, dato che l’omino addetto stava pranzando. Nonostante ciò, gli ingranaggi si mettono in moto lo stesso, è una famiglia di gran lavoratori quella degli omini verdi, e Doye comincia a ragionare. Shadowgear... Quei cosi avevano detto di chiamarsi cosi.... Non che quel nome gli ricordi qualcosa, a parte le lezioni d’inglese alle Elementari, però il fatto che, come diceva il biondino, erano apparsi in concomitanza col suo arrivo era una cosa da non sottovalutare. Anzi, ad essere precisi, Doye è convinto che fossero presenti sull’isola anche prima. Gli tornano in mente le parole di quel rottame del computer sulla minacciosa minaccia eccetera. Che quei mostriciattoli avessero a che fare con la storia, a causa della quale era stato buttato in quella folle avventura, era talmente lampante da risuonare quasi banale. Ad ogni modo, tutto porta a farlo credere, almeno secondo lui. Mentre scavalca con un salto un grosso cumulo di foglie, un sorriso furbo appare sul volto del nano. Se era veramente così che stavano le cose, allora il suo piano di far fare tutto a Torenban era più vicino che mai alla sua realizzazione. Gli bastava informarlo, aggiungere qualche dettaglio in più, qualche scenario catastrofico e al 300% il biondino si sarebbe buttato a testa bassa contro di loro per salvare la sua isola. Però, ripensa, atterrando di nuovo nel mezzo dell‘erba, non c’era ancora la motivazione giusta perchè il ragazzo agisse. Gli Shadowgear avevano provato a farli secchi, certo, e questo di solito bastava per chiunque, però non avevano ancora mostrato intenzioni ostili verso gli abitanti dell‘isola. Senza chiare prove sulla loro pericolosità, il massimo che Tighewan avrebbe fatto sarebbe stato tenerli d’occhio finchè non se ne fossero andati, Doye di questo è sicuro. “Per forza” pensa, corrucciato “Questo ragazzino sembra portato per tutta l‘impulsività che mi serve, ma non penso sia abbastanza stupido per rischiare tutto senza un motivo certo o solo per vendetta” Soprappensiero, il nano dà un calcio a un coniglio. “Magari, se non avesse mai incontrato quei cosi oscuri, potrebbe pure provarci a caricarli, ma adesso che ha visto che da solo non può tenergli testa, non lo farà mai, questo è poco ma sicuro; e se pure cercasse aiuto da quelli che abitano sto posto...” Mentre questi pensieri gli affollano la testa, lancia uno sguardo di sottecchi a Tidus, impegnato a far rotolare un grosso uovo di Garuda fuori dal sentiero, per poi fuggire a gambe levate con un paio di mega-pulcini affamati alle calcagna. “Questo tizio è un pulcino inesperto” commenta mentalmente il nano, ridacchia un attimo per la battuta, poi riprende: “Sicuro quanto il fatto che Windovs fa schifo come sistema operativo che a casa ha qualcuno che gli fa da baby-sitter e lo tiene a bada. “ Il nano ghigna tra sè. “Sto moccioso che vive da solo? Nah, non ce lo vedo proprio, va finire che si perde pure per passare tra la cucina e il cesso” Doye formula tutti questi giudizi in perfetta tranquillità, dimenticando che fino al giorno prima, lui viveva nuotando in mari di bibite gassate, passeggiando su banchine piene di pacchi di merendine alla cioccolata e peperone, pescando tonnellate di patatine fritte e scrutando l’orizzonte in attesa dell’arrivo di container di hamburger da 16 chili l’uno, ma questa è un’altra storia. Terminate le sue macchinazioni mentali, Doye, sbuffa scocciato. A quel punto la decisione possibile è solo una: sarebbe rimasto con quel ragazzino fino a che non avesse ottenuto la motivazione giusta per sconfiggere quei mostriciattoli, poi l’avrebbe piantato a combattere per lui. Al diavolo i dettagli e al diavolo gli ordini del rottame, a Doye non importa che sta succedendo, l’unica cosa importante è chiudere quella faccenda e tornare a casa il più presto possibile. “Mwahahaha, ma quanto sono cattivo” ridacchia, fregandosi malvagiamente le mani. Si blocca di botto nel vedere Tidus che lo guarda un po’ dubbioso. “Questa cosa comincia seriamente a preoccuparmi, lo sai?” “FATTI GLI AFFARI TUOI TU!!” sbotta il nano, poi borbotta tra sè: “Accidenti, devo proprio togliermi questa mania di pensare ad alta voce” Di colpo, come ricordandosi di botto qualcosa che gli era sfuggito, anche se in realtà lo fa solo per cambiare discorso, dice: “Adesso che ci penso...ma che fine ha fatto quella ragazza che ho...” Tidus lo guarda male. “...HO salvato! Te non hai fatto un cacchio! Non ci provare nemmeno a guardarmi cosi, sai?” “Ma...veramente sono stato io che...” “Che ha fatto conoscere al sottoscritto tutta la fauna marina dist’isola?” “Ehm...l’ho lasciata a riposare in una radura nascosta nella foresta e sono venuto a cercarti” “Se, se, adesso cambia pure discorso“ borbotta Doye, poi si rende conto di quello che ha detto Tidus: “TU HAI FATTO COSA???” “Ehi, non c‘è nessun problema” si schermisce Tidus con tranquilla sicurezza. “Tanto l’ho lasciata in una zona tranquilla. Lì gli animali feroci ci passano raramente e non c’è granchè di pericolo. Che vuoi che succeda?” “MA CHE C’ENTRA!! STIAMO IN UNA FORESTA! E SE PASSANO GLI ANIMALI? SE QUELLA SI SVEGLIA E NON SA DOVE ANDARE? CHE FACCIAMO, LA RINTRACCIAMO CON IL SATELLITARE? GLI MANDIAMO UN PALLONCINO? MA TI DROGHI, BIONDINO???” “Ehm...” fa Tidus, rendendosi lentamente conto della cavolata che ha combinato. Dopo la sfuriata, Doye si calma un po’. “Almeno hai messo qualcosa a coprire quella ragazzina? Che so, foglie, sterpaglie, rami, qualcosa del genere?” chiede ancora furente, ma con un tono di voce più basso. “Ehm...” “...” “...” “Ok, lascia perdere, andiamo a prenderla e basta...” “Ok...” “...Sperando che non se la sia mangiata un Coguaro” “Niente pessimismo, d’accordo? Già mi stanno venendo i sensi di colpa! Niente pessimismo, ok???” “Bah, fai strada, Giruvegan” Tidus annuisce e scatta di corsa lungo il sentiero. Doye lo segue immediatamente, e nel farlo molla un calcio a un gattino finitogli tra i piedi. Getta uno sguardo rapido verso il biondino e vede una profonda preoccupazione riflettersi nei suoi occhi azzurri. Sembra davvero biasimare sè stesso per la propria idiozia. Corre rapido e concentrato, e porta scritto in volto che spera di trovare la ragazza sana e salva. Eppure Doye non alleggerisce minimamente la severità che prova verso quel moccioso ingenuo. “Stupidi personaggi famosi” mormora tra sè. Vecchi ricordi e vecchi rancori sente raschiare dolosamente dentro lo stomaco, ancora vivi e infuocati come il giorno in cui li ha vissuti per la prima volta. Aggrotta la fronte e accelera il passo. Tiene gli occhi fissi sul ragazzo che lo precede, mentre un vecchio odio torna a richiamarlo a sè. Lo stuzzica con parole dure, di rimprovero e il nano lo ascolta; non lo abbraccia nè lo allontana, perché sa che è parte di lui e contiene una giusta dose di verità. L’odio per personaggi di storie come Tidus e quelli come lui. Doye pensava di averlo ormai cancellato, ma in quel momento comprende che non è mai stato cosi. Vede vecchi ricordi riemergere alla memoria ed ognuno di essi lo infiamma all’odio verso quel ragazzo che, inconsapevole, gli volge la schiena. “Da questa parte!” gli grida il ragazzo. Lui si limita ad annuire, serio, senza rispondere, nel timore che la sua voce possa tradire l’astio che prova. Prende alcuni rapidi respiri, ed è di nuovo calmo. Non può farsi trascinare dalle emozioni, non adesso che forse ha trovato un modo per tornare a casa. Con fatica, spinge indietro, nel baule dei ricordi, nell’oblio della dimenticanza, l’odio, chiude il lucchetto e ci mette una pietra sopra. Ma non basta questo a farlo svanire. Quella sensazione forte, bruciante, resta nel sottofondo, costante rintocco che dà il ritmo alla sua anima. A Doye sta bene cosi. Quel odio non deve sparire, perché è giusto che esista, ma non deve neanche intralciare i suoi passi. Solo lui è il padrone della sua mente e delle sue emozioni, mai il contrario. Mai. “Non è molto lontano da qui! La voce di Tidus lo richiama dai suoi pensieri, riportandolo definitivamente alla realtà. Annuisce di nuovo, ma quella è la fine della loro conversazione. Entrambi rimangono in silenzio, concentrato e preoccupato il primo, calmo e controllato il nano, mentre percorrono un piccolo sentiero che si fa strada tra alberi e piante tutte non inferiori al metro e mezzo, carote comprese. La volta di rami sopra di loro si fa via via sempre più fitta. “Da questo punto in poi diventa pericoloso camminare, attento a dove metti i piedi” avverte Tidus. “Tsè, stai parlando con uno che una volta è stato dalle Giovani Marmotte, ciccio” “Buono a sapersi...” Dopo qualche istante, i due si ritrovano immersi nell’ombra. La luce del sole stenta a filtrare attraverso il tetto di foglie ed entrambi si ritrovano a dover guardare attentamente dove mettono i piedi. Nonostante ciò, nano e ragazzo sono esperti e coraggiosi e il loro cammino continua senza ostacoli. “AHIA!” A parte le cadute causate da radici affioranti non viste. “OHIO!” A parte gli schianti contro i rami troppo bassi. “UAHIA!!” A parte i voli in fossi pieni di ortiche. “UHIO!” A parte le ruzzolate nei roveti. “UAAAAH!!” A parte gli investimenti dai taxi di passaggio. “AAAARGH!!” A parte gli attacchi dei T-Rex. “NOOOOO! NON VOGLIO!” A parte i venditori di ombrelli. A parte tutto questo, i nostri due eroi (ancora) attraversano impavidamente la selva e fuoriescono sani e salvi in una zona sgombra. “Sani e salvi...a chi?” ansima Doye, uscendo alla luce del sole appoggiato a una gruccia. “Ma che diavolo ha che non va quest’isola? E’ peggio di Jurassic Park! Eppure a vederla da fuori sembrava tanto bella.” Senza dargli retta, Tidus fa scorrere rapidamente lo sguardo aggrottato di fronte a loro. “E questo è niente” dice dopo qualche istante. “Devi ancora vedere tutta la parte che va dalla foresta alla spiaggia, là i Budini e i Garuda vengono giù come se piovesse” “Fantastico...non vedo l’ora di andarci” commenta Doye, e si guarda intorno: si trovano in una piccola radura circondata da ogni lato da una fitta barriera di piante e occupata solo da un leggero prato di erba alta, che gli arriva fino alla cintola, punteggiato quà e là da grosse rocce. Da quel che può vedere, quel posto spunta come un’isola nel mare verde della foresta. Nonostante l’isolamento del luogo, il fruscio delle foglie e il sospiro del vento lo rende tutt’altro che un asilo rassicurante, anzi, a Doye sembra di sentire qualcosa nell’aria, quasi una tensione nascosta. “Perchè non si sente nessun rumore?” pensa con una punta d’ansia. Tidus non sembra essersi accorto di nulla, nota, impegnato com’è a cercare qualcosa con lo sguardo. Il nano aggrotta le sopracciglia, inquieto. C’è qualcosa che non va in quel posto. Per quanto si sforzi di guardare, non vede nulla di anomalo, ma qualcosa, in fondo al cuore, gli grida a gran voce un pericolo imminente. “Ehi, Gaderabannar” chiama con circospezione. Il silenzio presente gli dice che non è il caso di fare troppo rumore. Tidus non si muove. “Ehi!” chiama un po’ più forte. Nient. L’altro non sembra neanche aver sentito. “Ehi!” ripete ancora, un po’ spazientito, poi, vedendo che l’altro lo ignora, sbotta a urlare. “EEHHHHIIIIIIIIIIIIIIII!!!!” “AAAAAARGH!!!!” Preso di sorpresa, Tidus grida di spavento e, mentre fa per girarsi, inciampa e cade; Doye scatta per afferrarlo, ma è troppo lento, e il ragazzo rotola fino ad andare a sbattere contro una delle forme di pietra. “Ma che diamine hai da urlare?” chiede arrabbiato il ragazzo appoggiatoci contro a testa in giù. “Ti ho chiamato trenta volte! Che c’è, non ci senti???” sbotta di rimando Doye. “Perchè, ce l’avevi con me?” “Con chi cavolo dovrei avercela, se in trecento chilometri quadrati ci stiamo solo noi due?” “Allora almeno imparati il mio nomeeeee!!!” Doye sta per rispondere che sa benissimo che si chiama Tgan’rnsan, quando si blocca di colpo e spalanca gli occhi, sbigottito. Ancora nella scomoda posizione di prima, Tidus solleva un sopracciglio. “Uh? Che c’è adesso?” chiede, quando anche lui fa la stessa espressione del nano. “E-ehi, Taberran” balbetta Doye, osservando qualcosa di grande e grosso muoversi dietro il biondo, per l’esattezza la forma che aveva scambiato per una roccia. “Ma per caso su quest’isola vivono anche delle grosse tigri che si mimetizzano da rocce?” “S-si...” balbetta Tidus di rimando. “E ne hai una proprio dietro di te” “E’ lo stesso per te” Doye sente un’ondata calda sfiorargli la nuca e riempirgli le mutande, ma non riesce a staccare gli occhi dalla tigre alta due metri e mezzo che va sollevandosi su zampe grandi quanto piatti di portata e digrignando le zanne in un ghigno ferale. “C-c-che facciamo?” “M-m-mi sa che c-c-ci resta solo u-u-una cosa” Entrambe le tigri spalancarono le bocche ed emisero dei ruggiti assordanti. “AIUTOOOOOOO!!!”
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